Le reti di protezione
Le reti di protezione

Parlare di ciò che ho visto la settimana scorsa a Hebron non è facile e ho avuto bisogno di un po’ di tempo per metabolizzarlo. Vi chiedo allora uno sforzo di immaginazione: provate a seguirmi in questo percorso cercando di figurarvi concretamente questa zona, aiutandovi anche con le foto che ho scattato. Solo con uno sforzo di immaginazione, infatti, un europeo può capire che cosa è Hebron.

Hebron sorge a 40 km a sud di Gerusalemme e oggi è ridotta ad essere una città non città, una città fantasma.

Questa cittadina, un tempo famosa per i cristalli e per il commercio, è oggi divisa in due: H1, la parte più grande e palestinese e H2, la parte meno densamente popolata ed ebraica.
Nella nostra visita non incontreremo molte persone per strada, ma solo qualche ebreo che va a pregare alla sinagoga del suo patriarca, qualche musulmano che va a pregare dalla parte opposta, dove si trova la moschea e qualche turista che non si spinge oltre le mura di Erode e la tomba di Abramo.

Entriamo ad Hebron. L’impatto è subito negativo: pensate ad uno spiazzo completamente vuoto, triste. L’unica presenza che vediamo è quella di una torretta, un checkpoint con due militari e di un cassonetto della spazzatura in fiamme. Attraversiamo un tendone e ci troveremo nella parte turistica, dove sorge quella che viene conosciuta come la Tomba dei Patriarchi. La struttura è divisa in due con due entrate autonome: l’entrata della sinagoga e l’entrata della moschea.

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Superiamo i controlli, il metal detector e mostriamo che non possediamo oggetti pericolosi o armi.

Entriamo nella sinagoga e arriviamo alla soglia di una stanza dove possiamo vedere un sarcofago ricoperto da un drappo verde e bordeaux, in onore di Abramo.
Ora usciamo, superiamo un altro checkpoint con il metal detector, mostriamo che non siamo armati. Entriamo nella moschea e, oltrepassato il luogo di preghiera, vediamo in una camera lo stesso sarcofago, ricoperto dal drappo verde e bordeaux, in onore di Abramo. Cambia solo la posizione: non riusciamo neanche a distinguere il davanti dal retro e non sappiamo dire che cosa c’è di diverso da ciò che abbiamo visto prima. Anzi, se aprissimo quella porta che delimita l’area del sarcofago e attraversassimo la stanza, ci troveremmo nella sinagoga! E allora che cosa è cambiato? Tutto. Semplicemente, tutto.

Lasciamo la Tomba dei Patriarchi alle nostre spalle e ci dirigiamo verso il suk arabo medievale. Qui la scena che ci si presenta è agghiacciante. Vi ricordo che siamo qui solo perché c’è una guida con noi: per la nostra incolumità non avremmo mai potuto viaggiare liberi e senza accompagnatore.
Ci mettiamo in fila e uno per uno passiamo il tornello per entrare nel suk. Mentre aspettiamo ordinatamente il nostro turno immaginate di essere letteralmente assaliti da mendicanti e borseggiatori: il ragazzo che vende i braccialetti tenta di infilarci le mani in tasca, la vecchietta, con la scusa di appoggiarsi, cerca di derubarci, bambini di ogni età ci accerchiano. Una volta superato il tornello, lo spettacolo è ancora più angosciante: non possiamo fare due passi senza che veniamo chiamati, implorati di comprare, toccati. Tratteniamo il respiro, non ci soffermiamo in quel suk che sarebbe anche meraviglioso e andiamo avanti. Superiamo la folla dei venditori e ci guardiamo ora attorno. Immaginate che, a un certo punto, avete bisogno di aria e alzate la testa al cielo. Ed ecco che ci si presenta uno spettacolo desolante: non c’è cielo. Il cielo è filtrato da reti.
Una premessa. Hebron è una delle città più violente e pericolose di Israele. Tra gli episodi di sangue più dolorosi si ricorda quello del 1929, quando gli arabi massacrarono la comunità ebraica che da secoli risiedeva a Hebron e quello del 1994, quando un ebreo americano, Baruch Goldstein, entrò nella moschea vestito con gli abiti militari e massacrò 29 musulmani in preghiera, le cui tracce di sangue sono ancora oggi visibili sulle pareti del luogo di culto.

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Torniamo alle reti. A cosa servono? Servono a catturare gli oggetti che la comunità ebraica scaglia sui palestinesi sottostanti. Figuratevi reti da pesca piene di qualunque oggetto: pietre, bottiglie di plastica, sassi.
Se ci guardiamo attorno possiamo vedere anche edifici bruciati, strade interrotte e murate, macerie dovunque.
Ritorniamo dalla via che ci ha portato a questo inferno e, mentre noi turisti non abbiamo difficoltà ad uscire dal tornello, un ragazzo palestinese viene fermato per il controllo. Mentre il palestinese ripete ossessivamente “Israeliani no buoni”, il militare, che sembra un suo coetaneo, se non addirittura più giovane di lui, lo invita a spogliarsi della cintura, del portafoglio, dei braccialetti e, solo dopo cinque minuti buoni, il ragazzo arabo riesce ad uscire.

Se H1 è zona di guerra, H2 è ciò che rimane alla fine di una guerra. Immaginate vie enormi e deserte, popolate solo da qualche militare armato fino ai denti. Immaginatevi negozi chiusi, serrati e abbandonati con affissi cartelloni esplicativi che cercano di raccontare ai turisti perché una delle zone più economicamente fiorenti e ricche di Israele è oggi ridotta così. Se ci guardiamo attorno vediamo imbocchi di strade sbarrate da alte mura e pietre, case munite da reti anti-pietre e cartelloni di protesta.

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A Hebron è grande il senso di scoraggiamento e vale più che mai la frase di David Grossman a cui accennavo l’altra volta, tratta dal suo libro “Con gli occhi del nemico”. Voglio qui riportarvela per intero: “Quando vivi in una zona di tragica emergenza, scopri che sei sempre sul chivalà. Sei sempre pronto e teso con tutto te stesso al dolore che verrà, al prossimo scoramento”.

Dire chi ha torto o chi ha ragione a Hebron non è semplice ma, dopo aver visto questa tremenda città, è ancora più difficile pensare a un futuro insieme per queste due popolazioni. Sembra lontano più che mai il sogno di Neve Shalom, per ora unica area di integrazione e coabitazione tra israeliani e palestinesi.

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